
Un tempo il lusso era sinonimo di esclusività, raffinatezza e valori ben definiti.
Non si trattava solo di oggetti costosi, ma di un universo costruito con precisione, popolato da icone che incarnavano successo, sportività ed eleganza.
Omega al polso di James Bond, Rolex che selezionava atleti d’élite, Gucci e Fendi che mantenevano un’aura di prestigio attraverso ambasciatori scelti con cura.
Oggi, però, qualcosa si è rotto.
Quando il lusso perde il controllo, perde il valore.
I social media hanno riscritto le regole del gioco, dando un megafono a chiunque riesca a generare visualizzazioni.
Il risultato? Non sono più i brand a selezionare i propri ambasciatori, ma i numeri.
E così, sempre più spesso, il lusso si trova associato a personaggi e dinamiche che poco hanno a che fare con il suo DNA.
Il problema è evidente: quando un brand di alta gamma viene promosso con gli stessi codici del fast fashion o dell’intrattenimento popolare, Il concetto di esclusività si dissolve, e con esso la percezione di qualità e desiderabilità.
E quando il lusso smette di essere aspirazionale, diventa semplicemente un prodotto come un altro.
Il lusso non ha bisogno di visibilità, ha bisogno di selettività.
Un marchio che punta sulla viralità fine a sé stessa sta giocando con il proprio futuro.
L’alta gamma non può permettersi di essere ovunque, su chiunque, senza distinzione.
Il lusso deve tornare a fare ciò che lo ha sempre reso unico: selezionare con cura, proteggere la propria immagine e comunicare esclusività in modo strategico.
Perché il vero prestigio non si misura in visualizzazioni, ma nella capacità di restare desiderabile nel tempo. E questo non si ottiene inseguendo le mode del momento, ma preservando ciò che rende un brand davvero unico.